Bieno: la nostalgia di uno sguardo perduto
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Bieno: la nostalgia di uno sguardo perduto
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Abstract
Cucire la storia pezzo dopo pezzo è come realizzare una coperta che unisce tanti piccoli quadrati quanti sono quelli dei volti, delle vite che formano il tessuto di questa piccola comunità, unita insieme da un filo invisibile, ma non per questo fragile. Gli anziani sono i naturali depositari dello scorrere del tempo, di quella storia orale che ha segnato fin dall’inizio lo sviluppo dell’uomo. Anch’io ho cercato, con tutta modestia, di ascoltare i più vecchi; per imparare, per comprendere. Per fare ciò che hanno sempre fatto i cuccioli d’uomo: crescere. Le lezioni della memoria non si imparano subito e deve passare molto tempo prima che ci accorgiamo di essere così fragili da commuoverci guardando la neve che cadeva negli inverni dell’infanzia, nel riconoscere tra tanti volti quello di papà e mamma quando non avevano pensieri. è il tempo, quello in cui ci si emoziona a fare i conti con i ricordi, che ha già segnato il passo dalla giovinezza. Tra i quattrocento contributi raccolti per dare forma e vita a questo libro fotografico il cui scopo, senza alcuna pretesa, è quello di narrare una storia, non saprei dire quali mi hanno colpito maggiormente. Sono tutti parte di un insieme indissolubile di famiglie, negozi, strade, vedute, cieli tersi, alberi ed erba che sta nel tempo fin dai primi anni dell’Ottocento, quando la posta arrivava col carro trainato da una pariglia e guidato, sulla strada lastricata di sassi, da intrepidi portalettere. Il tempo di abbeverare i cavalli nella piazzetta che un secolo e mezzo più tardi sarebbe diventata, nella lingua bienata, quella di Montecitorio. Sull’onda del curvone a inizio paese si parlava del tempo e delle belle donne, in un contraddittorio che voleva il bene e il male del prete, del sindaco, della maestra e della perpetua. E se l’estate arrivava con i profumi della gente che consumava gelati e pasti caldi nelle pensioni del paese, dall’altra parte, sotto gli avvolti di una cantina, il vento portava con sé il profumo della resina gocciolante dal legno e raccolta dalle mani di Evaristo, il falegname. E c’era Genio, camicia a scacchi pesante rossa e nera anche d’estate. Portava la pipa e un grande cappello. Guardarlo era come pensare a una fiaba. Nel punto in cui si smarrisce la strada si poteva incontrare Genio che con la saggezza dei proverbi anziani, gli occhietti vivaci e un sorriso sdentato si faceva subito serio per indicare col dito la direzione giusta.